I medici stiano di più in laboratorio
Un po' medici e un po' scienziati, capaci di assistere i pazienti nelle corsie degli ospedali e al contempo di padroneggiare 'sul campo' gli strumenti della ricerca.
Con l'obiettivo finale di accorciare le distanze fra il banco di laboratorio e il letto del malato.
Sogna un camice bianco 'ibrido' - "perfettamente 'bilingue', ossia in grado di parlare il linguaggio della clinica come quello della ricerca di base" - uno dei volti più noti della scienza italiana: Pier Paolo Di Fiore del campus Ifom-Ieo e dell'università degli Studi di Milano, coordinatore del comitato istituito dall'Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro) per mettere a frutto le donazioni del 5 per mille già ricevute da circa 800 mila contribuenti dello Stivale.
"Bisogna portare sempre di più i giovani medici in laboratorio", spiega Di Fiore oggi nel capoluogo lombardo, a margine della presentazione del programma speciale 'Clinical Molecular Oncology - 5 per mille', finanziato con 75 milioni di euro in 5 anni per "cambiare la faccia al cancro", è la sfida lanciata dall'associazione. "In passato in Italia esisteva una grande tradizione di medici-ricercatori - ricorda lo scienziato - ma poi una riforma delle Facoltà di Medicina ha ridotto il tempo che i futuri medici riescono a trascorrere in laboratorio". Risultato: oggi nel nostro Paese "la clinica e la ricerca parlano linguaggi in parte differenti.
Tutti sappiamo che l'integrazione dei due mondi non è cosa facile", ammette Di Fiore. Ma l'interesse del paziente deve prevalere e quindi "è indispensabile uno sforzo di ingegno, di volontà e anche economico per raggiungere questo obiettivo". Lo scienziato suggerisce per esempio la 'ricetta anglosassone': "L'università italiana potrebbe pensare di far partire corsi integrati modello MD/PhD - dice - In questo modo si avrebbe un unico itinerario formativo della durata di 8-9 anni, contro i 10 in media dell'attuale laurea più dottorato successivo", puntualizza.
Pagina pubblicata il 17 settembre 2009