Aborto. Istigazione ad abortire

La legge dice: devi riflettere sette giorni dopo aver parlato con un medico di tua scelta e poi puoi ottenere l'intervento presso struttura pubblica o convenzionata.

Così molte donne immaginano di trovare la possibilità di operarsi nel giro di pochi giorni, negli ospedali pubblici, o nei centri convenzionati.

Quasi sempre si trovano di fronte, invece, operatori che drenano, con improbo sforzo, un fiume di donne ognuna con il suo problema.

I miei genitori non lo sanno, mio marito non lo sa, i miei padroni partono e devo partire con loro sennò mi licenziano, la signora mi ha detto "se fai il bambino capisci da sola che non puoi più lavorare", non ho casa, sono clandestina.

Ma ancora: mi sto per laureare, mi hanno appena assunto e non sono in regola o, peggio, mi hanno chiesto il test di gravidanza negativo per assumermi. Ed anche: la mestruazione che mi è venuta era falsa, mi mancano pochi giorni alla scadenza della legge, ho 14, 16, 17 anni, mi hanno detto che lo potrei fare per 1.800.000 da un privato ma non ho soldi e non mi fido.

Mille problemi, mille urgenze di fronte a un servizio che vive una cronica insufficienza di posti letto e di posti nelle liste operatorie.

L'interruzione di gravidanza è l'unico intervento chirurgico che non può essere eseguito a pagamento presso strutture private.

La legge lo ha così sottratto al mercato dei "cucchiai d'oro" di triste memoria che lo facevano, subito, anche convinti di aiutare una poveretta, purché la poveretta medesima pagasse in contanti e subito.

Per quelle che pagavano di più , e che conoscevano da prima e da prima pagavano il medico c'era la clinica privata, la cartella contraffatta e il ricovero compiacente. Per le altre l'ambulatorio e il taxi chiamato poco dopo finito perché non ci si fidava, non si volevano testimoni e quindi la donna doveva venire e andarsene da sola (a quei tempi anche le donne erano punibili, e avevano paura anch'esse di essere arrestate).

Bisogna ricordare che l'aborto settico, temuta e spesso mortale infezione post-operatoria, vero flagello delle donne che ricorrevano all'aborto clandestino simile alla febbre puerperale, è completamente scomparso dopo il 1978 dai nostri reparti di rianimazione?

Dobbiamo veramente di nuovo ricordare che i ginecologi che, per denaro, praticavano l'aborto clandestino, quando si trovavano di fronte una complicazione caricavano la donna in macchina, la accompagnavano fino alla soglia del Pronto Soccorso e poi la spingevano fuori tremante, barcollante, sola, mentre schizzavano via per non essere riconosciuti?

Questo, ovviamente quelli bravi, perché gli altri le mandavano a casa lo stesso raccomandandogli di mettersi a letto con la borsa del ghiaccio. Salvo vederle comparire in ospedale, 36 o 48 ore dopo, ormai in preda allo shock settico, solo per morire nel giro di poche ore. E adesso ? Adesso c'è lo Stato che provvede, gratis.

Non solo è vietato farlo fuori a pagamento, ma è annullato ogni ticket, quasi che l'attività meno "curativa" che esiste possa trovare un'anima solo restando un gesto di aiuto, mai qualcosa che si compra e si vende.

I medici che lo fanno, qualcuno per amore, molti perché è l'unico lavoro che hanno trovato, sono lì, al servizio delle donne. Sono lì non per curarle ma per aiutarle ad esercitare il diritto di scegliere.

Spesso pagano questo ruolo con il disprezzo dei colleghi obiettori di coscienza, quando a disprezzarli non sono le donne stesse che, in un cul di sac di paura e sensi di colpa a volte mortificano sé stesse e chi le aiuta.

Così anche loro diventano bruschi, sbrigativi, freddi. Per le donne è la prima, a volte la seconda volta. Per gli operatori, sempre gli stessi, negli anni diventano centinaia e centinaia.

E adesso? adesso già si paga l'aria che tira. La proposta di Gianfranco Fini di inserire nella legge 194 un articolo che infligga una pena fino a tre anni di carcere per chi istiga all'aborto aleggia sinistramente sui servizi.

I dirigenti delle Aziende Sanitarie hanno paura di distinguersi per l'aiuto alle donne, per la semplificazione delle procedure. Più è complicato l'accesso, più la donna ha tempo di ripensarci, si dice.

Così la farragine degli appuntamenti diventa quasi una punizione necessaria. I vescovi sono contrari all'RU486, la pillola che provoca un aborto "medico" (che non c'entra niente con la pillola del giorno dopo!) perché, sostengono, banalizza l'evento.

Come se le donne, nella loro storia collettiva, avessero ancora bisogno di essere segnate nella carne per le loro decisioni. E meno male che non c'è più il rogo... Recentissima è la proposta di Buttiglione sul premio di un milione al mese per chi rinuncia all'aborto .

Non abbiamo niente in contrario a che le donne che fanno un bambino ricevano un premio. Dobbiamo solo ricordare che nella Regione Lazio i fondi necessari per i premi alle "pentite" sono stati stornati dai fondi già assegnati per il sostegno all'avviamento delle donne al lavoro e che questo la dice lunga sul desiderio di riportare le donne in una categoria di serie B, dove si può chiedere la carità ma non certo raggiungere quell'autosufficienza che permette alle donne di scegliere il loro destino e proteggere se stesse e i propri figli.

L'emancipazione e la liberazione delle donne passa dalla loro possibilità di decidere sul proprio corpo attraverso la contraccezione e l'autodeterminazione.

L'aborto libero e gratuito è un mezzo per permettergli di sottrarsi al potere degli altri sul loro destino. E' scandaloso e immorale che il prezzo sia il loro dolore, fisico e morale. Chi le vuole veramente aiutare deve dare qualcosa di più dell'elemosina.

di Elisabetta Canitano (tratto da Marea)

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