Aborto: non facile, non pentite
Quasi una donna americana su tre avrà un aborto prima dei 45 anni.
Perché abbiamo così paura di parlarne – o di riconoscere che le nostre vite sarebbero state così tanto diminuite se non lo avessimo fatto? Perché subiamo una pressione a sentire che dovremmo rimpiangere la nostra scelta, e che se non lo facciamo c'è qualcosa di sbagliato in noi?
Questo articolo appare nel numero di novembre della rivista ELLE
Sono andata a casa di Katha Pollitt un pomeriggio di sole dell'estate scorsa, portando sandwich sfiziosi e una buona bottiglia di rosé. I sandwich erano il nostro pranzo, il vino significava di più.
La venerabile articolista della rivista di sinistra The Nation vive con il suo secondo marito, il teorico politico e sociale Steven Lukes, nell'Upper West Side di Manhattan. L'appartamento era molto caldo, fra poco sarebbe apparso il sudore sul mio labbro superiore.
I giornalisti a volte offrono alcol agli intervistati nella speranza di diminuire le loro inibizioni, portandoli a dire la cosa inopportuna ma “vera”. Ma non in questo caso. Sapevo che Pollitt sarebbe stata desiderosa di esporre il suo nuovo, importante e rivelatorio libro, Pro: Reclaming Abortion Rights (Pro: Reclamare i Diritti all'Aborto) – il cui stesso soggetto è inopportuno. Mi ha accolto sulla porta in ampi pantaloni scuri e un sopra di cotone lavorato ai ferri, il tipo di abbigliamento comodo che si usa per scrivere. I suoi capelli erano corti e a punta, un po' umidi, come se fosse appena uscita dalla doccia. Era scalza. Ho detto che dentro faceva caldo?
Avrete ormai capito che il vino era per me. Per calmarmi i nervi, perché sono andata da Pollitt non solo come ammiratrice di Pro, ma anche per discutere la mia intenzione di scrivere della mia personale esperienza su questo argomento. Sono stanca della retorica, anche da parte dei sostenitori per la scelta, che nel loro comprensibile atteggiamento difensivo sembrano restringersi a discutere gli aborti più “compassionevoli”, quelli eseguiti per stupro o incesto, perché la vita o la salute della madre è in pericolo, o quando il feto ha qualche malattia devastante come la malattia di Tay-Sachs. Tutti questi messi insieme fanno meno di un decimo del più di un milione di gravidanze poste a termine in questo paese ogni anno.
Pollitt ci dice in Pro: “Scusate tanto, ragazze di quindici anni che si sono ubriacate a una festa, madri single con già tutti i figli di cui possono occuparsi e senza soldi, madri impegnate a occuparsi di figli disabili, studentesse con solo un anno per la laurea, donne maltrattate, donne che hanno perso il lavoro o che ne hanno appena trovato uno decente, e donne di 45 anni che hanno già fatto crescere i figli nell'età adulta, per non parlare delle donne che semplicemente non si sentono pronte per essere madri, o magari perfino non vogliono essere madri mai.”
Ho preso il libro di Pollitt molto personalmente; l'ho letto come una specie di chiamata all'azione, un appello per smettere di lasciare che gli oppositori dell'aborto riempiano tutti gli spazi dell'etere disponibili. C'è un incipiente movimento in questa direzione, simile forse alla petizione della rivista Ms. “Ho avuto un aborto”, pubblicata per la prima volta nel 1972 e firmata da luminari come Billie Jean King e Nora Ephron.
Lucy Flore, una donna politica in corsa come governatore generale del Nevada, la cui storia è stata raccontata in ELLE e altre pubblicazioni nazionali, è stata schietta circa l'impatto positivo dell'aborto sulla sua vita. Una giovane donna del New Jersey di nome Emily Letts ha filmato il suo aborto e all'inizio dell'anno lo ha messo su YouTube; lo ha fatto in parte per contrastare gli sforzi di successo del movimento antiabortista per limitare l'aborto con leggi statali che impongono che le cliniche che praticano la procedura siano dotate di attrezzature praticamente come gli ospedali generali; voleva mostrare che la chirurgia standard non è particolarmente complicata o dolorosa.
E, più recentemente, nella commedia romantica Obvious Child, un'attrice single di nome Donna, dopo essere restata incinta dopo l'appuntamento di una sera, decide rapidamente di avere un aborto e lo porta avanti (a differenza di molti film, in cui l'aborto è usato come quello che un critico ha chiamato depistaggio” che alla fine porta a una “felice nascita”). Come Jenny State, l'attrice che recita il personaggio nel film, ha detto al New York Times, il soggetto di Obvious Child è la “complessa esperienza” di Donna nel terminare la sua gravidanza, non che l'aborto sia “una tragedia.”
Per una piccola parte di donne – e il numero è ridotto stando a qualsiasi ragionevole resoconto scientifico – l'aborto è davvero una tragedia, un trauma con riverberi a lungo termine. Ma io voglio raccontare una storia diversa, la più comune eppure stranamente nascosta, che è che io non mi sento colpevole e torturata rispetto al mio aborto. O meglio i miei aborti. Ecco, l'ho detto.
“Aborto. Dobbiamo parlarne,” Pollitt implora in Pro. “Dobbiamo parlarne in modo diverso. Non come di qualcosa che siamo tutti d'accordo sia male su cui scuotiamo tristemente la testa per poi dibattere il suo esatto grado di male, pavoneggiandoci per quanto siamo giudiziosi e moralmente seri mentre discutiamo su questa o quella restrizione rispetto a questo o quel tipo di donna. Dobbiamo parlare di terminare una gravidanza come un evento comune, perfino normale nelle vite riproduttive delle donne”.
Quanto normale? Quasi una donna americana su tre avrà posto fine a una gravidanza entro i 45 anni di età, e sei aborti su dieci sono effettuati da donne che sono già madri. Non si può vivere nella cultura di aborto-è-omicidio tutta la propria vita adulta e non esserne influenzati, anche se si è pro-scelta. Quindi mentre già conoscevo molte delle informazioni di base che Pollitt impartisce, avevo “dimenticato” alcuni fatti e perso traccia di come i fatti avevano formato le mie convinzioni pro-scelta.
Sono diventata adulta negli anni '70 – avevo otto anni quando fu deciso il caso Rose contro Wade – un'epoca in cui i sostenitori pro-scelta non si sentivano obbligati a parlare esclusivamente degli altri tipi di assistenza medica che le cliniche di Pianficazione Parentale offrivano: i controlli per il cancro al seno, la contraccezione, il trattamento per le malattie sessualmente trasmesse. Sono cresciuta in quella breve epoca quando, scrive Pollitt, “non eri automaticamente una persona cinica e superficiale se non sentivi altro che sollievo nel non essere più incinta, e non eri un mostro se lo dicevi.”
In molti incontri al lavoro in cui questo saggio è stato discusso, ho notato che nessuno degli altri editor nella stanza, tutti pro-scelta, riusciva a pronunciare la parola aborto; era “il pezzo pro scelta di Laurie,” o le sue “memorie”. So che i miei colleghi, di cui molti sono miei amici, cercavano solo di essere gentili quando si riferivano alla mia storia sui “diritti riproduttivi”. La verità è che anche io mi sentivo a disagio a dirlo ad alta voce, L'aborto è un tabù della conversazione, i panni più sporchi di una donna, per mescolare le metafore. Perché l' altra cosa del vivere in una cultura politica in cui una cellula monozigote è costantemente chiamata una “persona” è che c'è una penombra di vergogna che circonda l'aborto: Per quanto riguarda me, tuttavia, mi chiedo: Mi sento davvero in colpa – e, se sì, di che cosa esattamente mi sento in colpa?
Il primo fu quello “accettabile” - quello che la maggior parte delle persone capirebbe, almeno quelli che non sono categoricamente contrari all'aborto: Oppure no? Scoprii di essere incinta al mio secondo anno alla Northwestern University, in una periferia di Chicago; Pollitt cita uno studio Gallup che, mettendo insieme i risultati di diversi sondaggi, concludeva che il 42 per cento degli americani approva un aborto che consente a una teenager di continuare a studiare: Questo però vuol dire che più della metà degli americani non approva quello che ho fatto, per non parlare del fatto che a 19 anni mi potevo dire teenager a mala pena. (E in qualche modo sospetto che questi interrogati pensassero a ragazze che finivano il liceo, non l'università).
Qualcuno potrebbe mettermi nella categoria delle donne che hanno posto fine alla loro gravidanza per andare avanti nella carriera, solo un ridottissimo 25 per cento di americani lo approva. Il settantanove per cento consentirebbe l'aborto quando stupro o incesto sono la causa della gravidanza; se è per proteggere la salute fisica della madre, l'83 per cento dice che l'aborto è okay.
Ma queste cifre da sole possono essere fuorvianti e Pollitt fa un eccellente lavoro nello smontarle e nel mostrare le contraddizioni nei nostri punti di vista, così come i limiti a quello che le ricerche possono dirci sulle decisioni che gli americani prendono per loro stessi (una vecchia battuta sull'aborto, secondo Pollitt: Quando dovrebbe essere legale l'aborto? Stupro, incesto e io”), o perfino quali politiche appoggerebbero avendone l'occasione. Un piccante esempio da Pro: Più di un terzo di quelli che si definiscono “pro-vita” dice anche che le donne dovrebbero avere il diritto di scegliere l'aborto.
Il libro è rivolto a questo gruppo ambivalente, quella che Pollitt chiama “la confusa classe media”, e non è che lei non capisca che le persone hanno impulsi opposti su cose importanti. Il problema, scrive, è che “Mentre voi, nella confusa classe media, tentennate e vi preoccupate e vi agitate e vi sfogate – sì, l'aborto dovrebbe essere legale, in un certo modo, però è anche tipo una cosa sbagliata, e non dovrebbe essere troppo facilitato, e non dovrebbe essere fatto troppo tardi, e la donna ci deve pensare più a lungo, ma anche non aspettare troppo a lungo, e soprattutto non dovrebbe essere così sgualdrina e irresponsabile – un movimento radicale contro i diritti all'aborto ha guadagnato immensa velocità.” Nel 2000, secondo l'Istituto Guttmacher, circa un terzo delle donne americane viveva in stati “ostili” all'aborto. Oggi accade a più di metà di noi.
L'estate prima del mio secondo anno alla Northwestern, vivevo a Columbus, Ohio, lavorando come segretaria in un enorme ristorante a più piani che si chiamava il Wine Cellar. Ero lì per stare col mio ragazzo del liceo, che andava alla Ohio State. Era un ragazzo che amavo appassionatamente, totalmente. Avevamo cominciato a uscire insieme quando avevamo 17 anni, ma mi ricordo quando eravamo in terza media, e mi sporgevo attraverso il suo banco durante la lezione di inglese del signor Hanninen e la mia camicetta si apriva rivelando quello che mia sorella chiamava con scherno il mio “reggiseno vivente” - era così imbottito, stava su con tale vitalità che sembrava una creatura vivente – e R. non rideva. Non mi prendeva in giro.
L'estate era stata un idillio – R e io che giocavamo a vivere insieme in uno squallido appartamento in Chittenden Avenue. Nel mio primo anno di università mi era mancato disperatamente. Quando ero arrivata non conoscevo nessuno alla Northwest e non credo di aver desiderato qualcuno come accadde con lui. Aveva capelli castano chiari e belle mani forti; sapeva suonare qualsiasi strumento a orecchio e mi suonava alla chitarra “Baby I Love Your Way” di Peter Frampton.
Le sue tre sorelle più grandi avevano lasciato casa per quando cominciammo a uscire insieme e finché non partì per l'università lui viveva solo con sua madre, che dapprima era gelosa di me, ma poi si abituò: era probabilmente il miglior scrittore nella nostra gigantesca fabbrica di liceo pubblico, così bravo che una volta fu accusato di plagio perché il compito di inglese che aveva scritto era troppo perspicace e eloquente, Come poteva scrivere una cosa del genere uno di 16 anni? Aveva talento anche in scienze e matematica, ma mancava molto a scuola – sua madre combatteva – e il nostro insegnante di fisica disse a mia madre, che era consigliera di sostegno nella nostra scuola, che R. non era “abbastanza”per me. R e un suo amico erano ossessionati dalla costruzione di un sottomarino e disegnavano piani dettagliati in un quaderno nero. Sarebbe stato ricavato da un grande barile di metallo, con cui si sarebbero inabissati nelle scure acque del lago Erie. Avevo sempre creduto che ce l'avrebbero fatta e fui delusa quando non fu così. R. voleva essere un artista, un pittore.
Quell'estate usavamo il diaframma. Avevo deciso di smettere con la pillola durante il mio primo anno di università perché stavamo insieme solo ogni due mesi. Uno dei due faceva il viaggio di otto ore in bus – quando la visita finiva nella luce gialla e oleosa della stazione degli autobus, volevo morire. Il sospetto verso i contraccettivi orali era nell'aria negli anni '70 e '80 (forse gli ormoni extra potevano causare malattie alla lunga), e io lo avevo assorbito. Pensavo, perché incasinare l'ambiente naturale del mio corpo se non facevo sesso regolarmente?
Così...quell'estate. Mi ricordo di essere sul pavimento della camera da letto, con la luce fioca che filtrava attraverso le brutte tende marroni dell'appartamento ammobiliato. Avevamo cominciato a fare sesso molto intenso e non ci siamo fermati per andare a cercare in giro il diaframma: Per essere chiari, anche se ci ho pensato, non volevo fermarmi. Il mio desiderio sessuale per R. era travolgente, mi alterava la mente – uno dei doni della mia vita.
Quando scoprii di essere incinta in mezzo al noioso lavoro della Northwestern, lo chiamai, molto agitata, scossa dal potere del mio corpo, da come mi sentivo primitiva per essere incinta. Scossa dalla gravità di quello che avevamo fatto. Potevamo avere un bambino insieme? Lo avremmo fatto? Volevo così tanto stare con R. Questo era il mio biglietto. Potevamo sposarci! Ma nonostante parlassimo di avere il bambino, nessuno di noi due lo considerò davvero. Lui sarebbe diventato un artista. Io avrei preso la mia laurea e avrei fatto qualcosa di ambizioso nella mia vita, anche se significava stare senza R. In ogni modo, era lui che volevo, non un bambino.
Pioveva il giorno in cui andai a fare l'aborto. R. non venne con me all'appuntamento; la mia cara compagna di stanza Jobie mi portò alla clinica. Cioè penso che mi abbia accompagnato. Le mie memorie di quella volta di 30 anni fa sono a dir poco confuse. Era prima che durante i D&D si usassero anestetici di breve durata, quindi ero sveglia ed era irritante sentire gli strappi dentro di me e chiedermi se avrei visto sangue o tessuto o cosa. Non vidi niente, almeno per quanto ricordi.
Non mi ricordo niente del periodo subito dopo l'aborto, ma mi hanno detto che ero triste e piangevo. Quella notte conobbi una ragazza che si chiamava Lisa che ora vedo e con cui parlo quasi tutti i giorni. (Abbiamo quasi sempre vissuto nella stessa città, e sebbene non sembra che lo avessimo programmato, io credo nel potere dell'inconscio.) E' lei quella che mi dice che quella notte piangevo. Sono sicura che desideravo che R. fosse stato con me.
Lisa dice che anche se le dispiaceva per me, si ricorda con tenerezza di essersi seduta sul letto singolo della mia stanza del dormitorio, ascoltando. Pensava, questa ragazza sta condividendo un importante evento emotivo con me; sarà la mia migliore amica per il resto della vita: Insiste a dire che lo ha saputo quella notte: Mi piace sentirglielo dire.
Nella decade dopo il mio aborto, mi sono laureata e ho preso un master in giornalismo, il che, fra le altre cose, aveva richiesto che vivessi in una baracca sulla spiaggia come praticante per il Miami Herald, così come che lavorassi fuori dall'ufficio della mia scuola a Washington, coprendo le notizie del Campidoglio per un piccolo giornale del Mississipi: Per il mio primo lavoro, come reporter per una rivista medica, ho viaggiato nel paese e nel mondo – incluso, e anche se mi riesce difficile crederlo adesso, partecipando alla prima conferenza internazionale sull'AIDS. E ho scritto un libro dopo molte ricerche sull'assistenza sanitaria per i poveri, per il quale ho passato tre anni immergendomi nelle vite di una famiglia multigenerazionale a Chicago, allargandomi a parlare delle così dette fabbriche Medicaid, le politiche del trapianto degli organi, la storia degli ospedali urbani e così via.
Non per sottolineare troppo, ma non avrei potuto, o anche fossi stata ricca, indipendente e con la possibilità di permettermi la migliore assistenza per infanzia, non avrei vissuto il decennio dei vent'anni così se fossi stata una madre: troppo tempo via da casa, e assolutamente troppo spazio mentale preso dal lavoro per essere il tipo di madre che sono e che volevo essere. Mia madre diceva sempre, “Perché essere madre se non sei lì a crescerli?”. L'ho presa in parola.
Ma metterla così è comunque ridicolo, perché se avessi partorito a vent'anni avrei dovuto lasciare l'università, tornare alla mia città natale, e mettermi sotto l'assistenza del governo – probabilmente i miei genitori avrebbero aiutato un po', ma certamente niente come assistenza per il bambino a tempo pieno o completo appoggio finanziario. Non so cosa avrebbe fatto R; voleva l'aborto tanto quanto lo volevo io.
Fornisco tutti questi dettagli non per mostrare che il mio aborto fosse “giustificato” a causa della decade produttiva che seguì, e non perché penso che quello che ho fatto nella ventina fosse di per sé più utile alla società del propagare la specie (anche se a essere onesta penso che lo fosse, per quanto piccolo l'impatto del mio lavoro), ma perché sembra esserci questa fantasia culturale che, come la mette Pollitt, “la gravidanza al momento sbagliato” è un ostacolo facilmente rimovibile, un ostacolo facilmente sormontato.
E' come se, scrive, “fare e allevare bambini fosse qualcosa che le donne dovrebbero essere pronte a fare in qualsiasi momento.” Se fare figli è compulsivo, la sessualità delle donne è ciò che le “definisce”, continua, “non il loro cervello e doni e individualità e carattere, e certamente non i loro desideri o le loro ambizioni o la loro volontà”. Messa in un altro modo, l'eguaglianza di genere è un concetto vuoto se una donna non può controllare la sua fertilità se non astenendosi dal sesso.
Ora è il momento di dire che non penso di aver ucciso nessuno quando ho avuto un aborto. Nove aborti su dieci in questo paese, il mio fra loro, avviene durante il primo trimestre; a otto settimane, una gravidanza in sviluppo è un embrione al contrario di un feto, della grandezza di un fagiolo e non veramente riconoscibile come umano. (“Se gli oppositori dell'aborto avessero sempre parlato di “diritti dell'embrione” e “del diritto dell'embrione alla vita” mi chiedo se sarebbero arrivati così lontano”, riflette Pollitt.)
A 12 settimane è diventato un feto, lungo da 2 a 3 pollici, con lineamenti che sono riconoscibilmente umani. Pure, per il mio pensiero, un feto a questo stadio non è una persona in nessun senso reale della parola. Non può vivere fuori dal grembo, nessuno dei suoi organi è completamente sviluppato e, ancora più importante, non è capace di pensiero cosciente, dato che le sinapsi corticali non iniziano a formarsi fino al secondo trimestre. Per il modo in cui ho sempre pensato, in termini profani, ho messo fine a una vita potenziale, non a una vita-vita.
Anche se alcuni credono che l'aborto sia omicidio, Pollitt sostiene che è in realtà solo un frammento della popolazione, a prescindere dalle loro risposte nelle ricerche. Altrimenti molte meno persone approverebbero l'aborto in casi di stupro e incesto, o per proteggere la salute della madre. Anche i più veementi oppositori sono ambigui sulla formula aborto-uguale-omicidio. Se davvero pensassero che le donne che abortiscono stanno uccidendo bambini, perché cercherebbero di convincerle che facendolo soffrirebbero un danno fisico e/o emotivo? Quando una persona commette un crimine che danneggia seriamente un altra persona, non perdiamo tempo a rivolgerci agli interessi personali del perpetratore, l'ingiunzione etica è sufficiente in sé. Non diciamo, come scrive Pollitt, “Non picchiate i vostri figli – sarete soli da vecchi.”
Seduta alla tavola da pranzo di Pollitt, che è piena di libri e carte, perché è qui che le piace scrivere, le dico della quasi chiamata che ho avuto nei primi anni della trentina, la volta in cui potrei aver abortito. A quel punto mi vedevo con l'uomo che alla fine sarebbe diventato mio marito – e il padre delle mie due adorate ragazze. R e io ci eravamo lasciati quando avevo 25 anni e ora c'era questo nuovo amore, T., che mi adorava – almeno per molto tempo. Usavamo i profilattici, ma com'era successo prima, T. e io una notte abbiamo preso il volo, e sono restata incinta.
Questa volta ero messa molto meglio – finanziariamente, professionalmente ed emozionalmente – ma non ero sicura che la mia relazione con T. sarebbe durata e non volevo forzare la decisione del matrimonio. (Neanche lui lo voleva). Ma alla fine la scelta non fu mia: ebbi un aborto spontaneo.
Mi ricordo della conversazione con Lisa in questo caso; ero sollevata. A proposito di falsa indicazione narrativa – avevo evitato lo sperma. Non ero sciatta e irresponsabile! Ma quello che non riuscivo a vedere allora era che l'aborto spontaneo non aveva cancellato l'atto incurante di fare sesso senza un profilattico: Di fatto, non ho realizzato quanto illogica fossi stata allora finché non ho raccontato la storia a Pollitt. “Mostrami la donna che non ha perso il controllo”, dice, “Nessuna si sente in colpa quando fanno sesso senza controllo della nascita e non restano incinte”.
Pollitt, che è la madre di un figlio, una figlia che ora ha 27 anni e che ha avuto col primo marito, aggiunge, “Io ho portato avanti tutta la mia prima storia senza contraccezione. Per quando usavo il controllo della nascita la storia era già finita. Sebbene allora avessi 22 anni, ero come certe adolescenti che hanno avuto l'astinenza come sola educazione sessuale e non ha idea di cosa stia succedendo.”
Ho sposato T. a 35 anni e prima del mio quarantesimo compleanno avevo messo al mondo le mie due figlie, tutte e due prontamente concepite quando ho deliberatamente smesso di usare la contraccezione. Un'altra cosa che è facile dimenticare nell'America del ventunesimo secolo è che la maggior parte delle donne rimane incinta piuttosto facilmente nella trentina.
Questa verità è restata chiusa perché le storie di infertilità sono così disturbanti e perché quale donna di una certa età non è passata attraverso l'agonizzante procedimento di fertilizzazione in vitro passo passo, o lei stessa o attraverso un'amica? La mancanza di consapevolezza è anche il prodotto di dati sorprendentemente antiquati e iper divulgati, che suggeriscono che la capacità di restare incinte precipita a 35 anni. (C'era un eccellente trattato su questo soggetto l'anno scorso in The Atlantic, scritto da una professoressa di psicologia di nome Jean Twenge.)
A parte quando ero incinta, durante i miei trenta ho usato l'affidabile pillola, ma un po' dopo i quaranta decisi di prendere una pausa. Come neo genitori e partner di lunga data, T. e io non facevamo sesso frequentemente come prima. E anche se so che non c'è buona evidenza che i contraccettivi orali siano dannosi se presi a lungo termine, o dopo i 40, ho pensato, come in altri snodi della mia vita, perché prendere ormoni extra se non devi? Così' mio marito e io passammo ai profilattici e man mano che passava il tempo ritenni che non potevo più restare incinta. Cioè, nessuna resta incinta a 44 anni senza coltura delle cellule e surrogati e ovuli donati, giusto? Così ancora una volta sperimentai quello che i tizi della salute pubblica chiamano “fallimento dell'uso reale del contraccettivo”: Non usammo un profilattico e restai incinta.
Che idiota irresponsabile, state pensando. Ed è quello che pensai io che, fino a un certo punto, penso ancora di me stessa. Non una, non due, ma tre gravidanze non volute. Io sono la figlia con ottima educazione di una volontaria di una clinica per Pianificazione Familiare, per l'amor del cielo – la mia settuagenaria madre è ancora lì fuori che lavora – e io non riesco a gestire di usare bene la contraccezione, specialmente visto che per allora avrei dovuto sapere che ero molto fertile?
Questa è la verità al meglio che possa dire: Le volte in cui mio marito ed io facevamo il tipo di sesso che avevo fatto con R. - il tipo in cui perdi la consapevolezza e diventi tutta bocca e dove si ferma lui comincio – era diventato meno frequente. Mi mancava, sia l'estasi fisica che la connessione con lui. Per quanto riguardava T, gli mancava il sesso e basta, qualunque tipo di sesso con me, punto. Quindi quando andava bene, quando lo sentivamo, io non volevo fermami: “E' okay, tutto a posto”, dicevo a T. Lui era sempre più cauto di me a proposito di quasi tutto, ma neanche lui ci fermava.
Questo è quello che è successo le tre volte che sono restata incinta per caso. Ho scelto l'immediatezza del piacere sessuale e dell'intimità emozionale rispetto al preoccuparmi delle potenziali conseguenze. Quando penso al fatto che le donne povere hanno una percentuale più alta di gravidanze non volute (e quindi aborto e nascite) delle donne più in alto nella scala sociale, questo è quello che penso a riguardo: se fai un lavoro qualsiasi per $7.25 all'ora mentre ti preoccupi di pagare l'affitto, se i tuoi figli hanno abbastanza amore e guida, e cosa diavolo puoi fare per uscire da questa scocciatura – è duro non afferrare la dolcezza quando e dove puoi. Mi sono sentita allo stesso modo quando ho passato quegli anni nella parte ovest di Chicago facendo le ricerche per il mio primo libro; un membro della famiglia aveva una distruttiva abitudine alla cocaina, e ripetutamente mi è accaduto di pensare che se la mia vita fosse stata ugualmente dura, con così poco a cui aspirare, avrei potuto essere proprio come lui. Sì, lo so che faceva del male alle persone, che avrebbe potuto, avrebbe dovuto cercare di prendersi cura meglio di quelli che amava, ma sentivo empatia per il suo desiderio di essere fuori, di fuggire il logorante torpore.
“Non ci stiamo occupando di cercare di convincere le persone a mettere le cinture di sicurezza”, dice Corinne Rocca, medico, un'epidemiologa che studia l'aborto. “Stiamo parlando di comportamento sessuale, che è connesso all'intimità, ai rapporti, connesso a uno dei più fondamentali impulsi biologici che ci sia.” Che è la ragione per cui, naturalmente, i soli fatti dell'educazione sanitaria privi del contesto sociale e emozionale spesso hanno un effetto minimo e deprimente, che siano diretti a una che non ha finito il liceo o a chi ha lauree multiple.
Con un team di colleghi scienziati dell'Università della California, San Francisco, Rocca sta portando avanti uno dei primi studi rigorosi sulle conseguenze emotive dell'aborto. I ricercatori stanno seguendo tre gruppi di parecchie centinaia di donne, ognuno per cinque anni. Un gruppo ha avuto aborti al primo trimestre, un altro predominanza di aborti al secondo trimestre; e l'ultimo è composto da donne che si sono presentate in clinica troppo tardi per la procedura e hanno avuto un figlio. (Il terzo è un gruppo di controllo di casi ed è migliore rispetto al lavoro precedente che ingiustamente confrontava donne che avevano abortito con donne che avevano avuto bambini che volevano o che avevano sofferto aborti spontanei.)
Uno dei primi documenti che Rocca e i suoi colleghi hanno pubblicato era basato su interviste fatte una settimana dopo l'aborto. “Il sollievo era era sicuramente la risposta più comunemente riferita,” mi dice, anche se aggiunge che le donne sentivano una varietà di emozioni positive e negative. Comunque si sentissero, il 95% dei soggetti che avevano avuto un aborto hanno detto ai ricercatori che credevano fosse la decisione giusta. Il gruppo UCSF ha sottoposto per la pubblicazione un altro studio seguendo lo stesso campione dopo tre anni, e anche se Rocca non ha potuto commentare nel dettaglio, mi ha detto, “Non riscontriamo un rimpianto emergente dopo tre anni.”
Il progetto in corso era in parte ispirato dal dibattito rimpianto-sollievo fra i sostenitori e gli oppositori dell'aborto, e per rivolgersi direttamente a questo, una sociologa dell'UCSF, Katrina Kimport, medico, ha fatto lunghe interviste con donne che ci si aspettava avessero difficoltà emotive rispetto ai loro aborti. Quando il rimpianto è usato nel regno della politica, è di solito considerato come significare che una donna che ha avuto un attaccamento per un bambino non nato ha posto fine alla gravidanza e vorrebbe poter tornare indietro e fare una scelta diversa.
Solo uno dei 21 soggetti della Kimport si adeguava a questo profilo al momento in cui è stata intervistata. La Kimport ha diviso i più comuni resoconti di disagio in tre categorie: disapprovazione per la scelta di una donna da parte di amici e famiglia, combinata con lo stigma sociale; la fine della storia romantica che aveva prodotto la gravidanza; e quello che lei chiama il conflitto “testa contro cuore”. Ad esempio la madre sposata di tre figli di nome Julie aveva 40 anni quando è restata incinta inaspettatamente: Era stata in ospedale per grave depressione post partum dopo il terzo figlio e si preoccupava di non potersi occupare dei figli che aveva se si fosse ammalata di nuovo, per non parlare del fatto che avrebbe dovuto interrompere gli antidepressivi per continuare la nuova gravidanza. Poi, inoltre, lei e suo marito avevano appena superato un “momento difficile” ed era preoccupata che un quarto figlio li avrebbe di nuovo destabilizzati.
Come dice Julie, “Quando ero da sola e ci pensavo avevo la sensazione di volerlo tenere assolutamente.” Ma quando parlava della situazione con suo marito e altri, sembrava “che non fosse davvero la decisione migliore, capisce, di tenere il bambino.”
La mia terza gravidanza è stata la più dura. Il significato che le mie due figlie hanno portato alla mia vita è incalcolabile, e anche a metà della quarantina sapevo già che il loro tempo con me come figlie sarebbe passato in un lampo. Mi sarebbe mancato così tanto fare la madre, quindi perché non farne un altro? Avrei avuto un figlio a casa fino ai miei 62 anni!
Però il mio matrimonio era teso – e ci voleva molta energia per cercare di mantenere la nostra casa in qualche modo felice, per dare alle ragazze il tempo e l'attenzione che volevo dargli, e per continuare a fare il lavoro che amavo. Mio marito disse che per lui andava bene in tutti e due i modi, ma insistette che ci trasferissimo in periferia se avessimo avuto un terzo figlio. La periferia mi preoccupava perché troppo lontana dal mio ufficio – quando avrei visto le mie figlie, per non parlare del nuovo bambino che avrei avuto? Mi preoccupavo del fatto che avrei perso contatto con il mio ampio giro di amici a New York che continuava a farmi sentire insieme e amata, specialmente ora che il mio matrimonio non dava molto in termini di zavorra o affetto.
Questa volta, quando il tecnico fece l'ecografia alla clinica per l'aborto, cominciai a singhiozzare. Chiesi di andare in sala d'attesa; parlai con mio marito di se procedere o meno; fu comprensivo e disse di nuovo che dovevo scegliere io, ma che capiva perché eravamo lì: Non sembrava un buon momento nelle nostre vite per avere un altro figlio. Ero d'accordo con lui. Un terzo figlio avrebbe messo troppa tensione nel nostro matrimonio, io volevo continuare a lavorare e non volevo trascurare le figlie che già avevo. Mi ricomposi e andai fino in fondo.
E' Pollitt a offrire forse la prospettiva di maggior perdono per la mia storia di aborti, e che dice qualcosa che è sembrata risuonare con molti miei amici e colleghi. “Le donne devono controllare la loro fertilità per trent'anni,” mi dice, facendo eco a un passo di Pro. “Trent'anni è un periodo molto lungo per non commettere errori”.
Ho avuto una gravidanza non programmata in ogni decade della mia vita riproduttiva, che non è una cosa di cui andare fieri, ma non sono sicura sia anche una cosa di cui vergognarsi.
Eppure, il giudizio alligna ancora anche in me. Sono passati meno di 50 anni da quando il moderno femminismo a cominciato a dare nuova forma ai nostri diritti rispetto alla legge e i nostri desideri e aspettative (sessuali e altro) nei rapporti. E' profondamente disturbante sfidare quello che Pollitt chiama il secolare ideale “sacrificante, altruista, materno. Che donna sei Laurie? Il biasimo può essere parte del patto psichico che le donne fanno con se stesse. Ho sentito il bisogno di parlare dei miei aborti con praticamente chiunque io abbia intervistato per questo pezzo – cosa cercavo? Assoluzione...o punizione?
In un'intervista con ELLE del mese scorso, il giudice della Corte Suprema US Ruth Bader Ginsburg ha detto che pensava che il paese si sarebbe “svegliato” e avrebbe realizzato che le restrizioni sull'aborto stato per stato erano insostenibili e che “non possiamo mai tornare” alla situazione prima di Roe, quando gli aborti erano solo “per donne che possono permettersi di viaggiare in uno stato vicino”. Eppure a me sembra che siamo tornati a quei tempi, proprio adesso alle donne povere si nega di fatto l'aborto perché non se lo possono permettere, o non possono permettersi la benzina per andare in una clinica che è lontana miglia e miglia – o non possono permettersi tutto questo e di passare la notte in un hotel per adempiere a un periodo di attesa di 24 ore.
Come Ginsburg ha evidenziato nel caso Hobby Lobby, una spirale costa quanto un mese di paga di un lavoratore a salario minimo. “Non ha senso in una politica nazionale promuovere la nascita solo fra la gente povera,” ha asserito. Ammiro il suo ottimismo, ma sono scettica sul fatto che il cambiamento sarà guidato dalla preoccupazione per la difficile situazione delle donne povere. Penso a quello che mi disse mio padre anni fa, quando cercavo di persuaderlo a votare per un candidato Democratico e usavo i diritti sull'aborto come cuneo. Spazzò via la mia motivazione. “Non mi preoccupo dell'aborto”, mi disse. “Se te ne serve uno, sarò in grado di fartelo fare.”
Se il mio secondo aborto è ancora sfumato di tristezza, è perché ha segnato uno spartiacque per me: Non ho più tutta la vita davanti; per i dati attuali ne ho molto meno che la metà: Non mi sposerò un giorno, o un giorno diventerò madre. La mia sensazione di potenziale illimitato si sta e si stava chiudendo rapidamente. Un embrione o un feto sono tutta potenzialità.
La presidente di ARAL America Pro-Scelta, Ilyse Hogue, dice che crede che per la maggior parte delle donne l'aborto sia “un breve capitolo nel lungo libro della loro vita”. Quello che è più importante, dice, non è l'attuale procedura. L' educazione, il lavoro, l'amore e i rapporti – il matrimonio che volevi, i figli che puoi crescere bene. Questa è la storia non detta dell'aborto, mi dice.
Mia figlia di 14 anni sa del mio primo aborto – circa un anno fa mi ha chiesto se ne avessi mai avuto uno e gliel'ho detto perché non mi piace mentirle e non volevo che sentisse che non poteva venire da me se fosse finita nella stessa situazione. Spero di poterla aiutare a prevenirlo parlando apertamente con lei del controllo delle nascite e dei sentimenti che possono ostacolare l'usarlo. Ma come io posso ampiamente attestare, gli errori accadono.
Mia figlia ha tirato di nuovo fuori l'argomento del mio aborto più di recente. E' difficile far capire come sia solidale e gentile. Sono sua madre, quindi non mi credereste, e davvero non so da dove sia venuta fuori questa bambina, ma c'è una bontà che emana da lei ora e che lo farà sempre. Questo non rende la sua vita necessariamente facile; e non rende sempre facile starle vicino. Lei è il radar Doppler del mio tempo emotivo, il che, se a volte è piuttosto seccante - “Tesoro, lasciami in pace, sto bene” - altre volte è una benedizione così profonda che tremo a pensarci. Una volta in macchina, quando aveva forse 11 anni, mi lamentavo del fatto che non riuscivo a credere che ancora una volta portavo in giro tutti come un vero e proprio autista, lasciando bambini di qua e di là e lei mi ha detto. “Oh, mamma, so che fra due ore chiederai scusa per esserti arrabbiata.” Stavamo per fermarci fuori dalla scuola di danza. “So che vuoi che esaudiamo i nostri sogni e le nostre speranze.”
E così stavamo portando a spasso il cane sulla strada di casa quando ha menzionato l'aborto con R. Un'ombra deve essermi passata sulla faccia, o forse ho esitato, mi si è spezzata la voce, non lo so, ma lei ha pensato che mi sentissi male per quello che avevo fatto. (in realtà stavo chiedendomi quando e come le avrei detto dell'altro aborto, ma suppongo ci sarà tempo.) Suo padre naturalmente è T.
“Hai fatto la cosa giusta!” ha esclamato. Mi ha afferrato il braccio, tenendomi sotto il suo sguardo chiaro. “Se non avessi avuto l'aborto, non avresti avuto me.”
28 ottobre 2014